Il 25 aprile, Anniversario della Liberazione, si avvicina e, forse, mai come quest’anno viene sentito.
A Rieti, il Comune ha affidato parte dei festeggiamenti al Teatro Alchemico, gruppo di teatro non convenzionale, la cui vocazione al particolare, alla ricerca, allo sperimentalismo, alla performance e al sociale si era avvertita fin dalla loro costituzione in gruppo, quando cioè dopo il sisma del 2009 a L’Aquila, Federica Scappa (reatina) e Umberto Caraccia (trapanese), due studenti dell’Università dell’Aquila (la prima in Studi Teatrali, il secondo in Psicologia Clinica) entrambi esperti di tecniche teatrali, hanno pensato di unire e mettere in pratica le loro conoscenze per portare un sorriso tra quanti si trovavano nella difficile situazione di dover vivere nelle tendopoli. Poi, poco dopo, si sono costituiti formalmente in associazione. Sempre a L’Aquila. E ora si dividono tra il capoluogo abruzzese dove svolgono laboratori presso il Cireneo, centro per l’autismo, e (dopo aver tenuto laboratori sulle arti di strada a Palermo e altrove) Rieti, dove la loro attività è costituita da corsi per bambini, laboratori per ragazzi in situazioni di marginalità, le attività presso La Casa delle Culture (luogo aperto da loro insieme ad altre associazioni, comprese quelle multiculturali, e che nel novembre scorso si è “presentata” ufficialmente alla città dando vita alla rassegna di impatto artistico e sociale da titolo significativo di “Autunno Multiculturale”) ed infine le performance installative che il Comune sistematicamente richiede loro in particolari giorni dell’anno, come ad esempio quella per il prossimo 25 aprile.
Giovedì, infatti, presso piazza Vittorio Emanuele di Rieti, alle ore 11:00, verrà realizzata l’installazione performativa dal titolo “Un fiore per il 25” e poi la sera dello stesso giorno, alle ore 18:00, presso le Officine Varrone, verrà presentata “Lettera da Cefalonia. Anteprima-studio sulla Divisione Aqui”.
La mattina, raccontano, riempiranno la piazza di fiori ed origami colorati e comporranno, con la partecipazione di molti performer, la scritta “Libertà”, mentre in filodiffusione si udiranno le parole (ma non la musica) di “Bella ciao” tradotte in diverse lingue tra cui l’afgano, lo svedese, il francese, l’armeno, l’inglese, etc., dice Umberto Caraccia, << dandogli un carattere anche un po’ internazionale perchè la Liberazione deve essere di tutti i popoli, non deve essere solo del 25. Poi in questo momento storico... >>
La sera, presso le Officine Varrone, chiese sconsacrate restaurate e adibite a complesso d’arte, presenteranno un’anteprima-studio di circa 15 minuti sui fatti di Cefalonia del 1943. Si chiama “Lettera da Cefalonia. Anteprima studio sulla Divisione Aqui”.
Questo frammento corrisponde alla prima scena di quello che sarà uno spettacolo che stanno preparando per novembre quando l’Ass. Nazionale Divisione Aqui presenterà una mostra di quel periodo (di circa 138-140 stampe) sulla vita di quei soldati italiani che persero la vita sterminati dai tedeschi nel 1943 a Cefalonia e Corfù.
Loro di Teatro Alchemico difficilmente lavorano all’interno di un teatro (all’italiana).
Le precedenti performance che hanno realizzato per il Comune di Rieti sono state per la Giornata della Memoria, lo scorso 27 gennaio, e per la Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, lo scorso 20 novembre 2012.
Per quanto riguarda il primo, Federica Scappa racconta che la vocazione ai temi sociali all’interno di Teatro Alchemico (e della Casa delle Culture) è così sviluppata che, è stato un ragazzo kosovaro, quindi musulmano, a proporre insistentemente di fare qualcosa per un evento che invece ha riguardato ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, dissidenti politici e coloro i quali erano considerati scomodi nel mondo occidentale nazista e fascista (ma non musulmano!).
In quell’occasione hanno realizzato un’installazione dal titolo “Verso un treno verso” e, raccontano, hanno preso i nomi dei 32.000 deportati circa, dall’Italia, che sono stati qualcosa come 8.900 per motivi razziali (quindi erano ebrei), tutti gli altri per motivi politici.
Federica Scappa dice: << Abbiamo recuperato la lista (fortuna è stata pubblicata!) scritta come il vocabolario. Quindi ce li siamo divisi tra noi, i ragazzi del centro per minori, i ragazzi dell’informagiovani. Ci siamo messi lì e ognuno si è ricopiato un po’ di nomi. Li abbiamo attaccati in 150 sedie. Poi queste sedie sono state messe, la mattina del 27, dalla piazza di Rieti, tutta una striscia di queste sedie che arrivava fino alla stazione. Poi lì abbiamo fatto uno spettacolo con altre compagnie.>>
Il 20 novembre, invece, per la Giornata Mondiale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, hanno riempito la piazza di Rieti con circa 2.000 origami a forma di barchetta, creando un'installazione dal titolo "Siamo tutti sullo stesso barcone". L’intervento si è poi spostato al Teatro Flavio Vespasiano dove con diversi bambini hanno realizzato “Sono solo una bambina” (il titolo deriva dall’estratto di un discorso pronunciato da una bambina di 12 anni all’ONU), performance di apertura della cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria a tutti i bambini e ragazzi nati in Italia da genitori emigrati. Un’onorificenza certo innovativa in Italia in un periodo nel quale si discute tanto se dare o meno la cittadinanza ai figli degli emigrati nati nel nostro Paese.
Per quanto riguarda attività più tradizionalmente teatrali, sebbene sempre rivolte alla sperimentazione e ricerca, precedentemente avevano realizzato spettacoli come “Solo l’amore”, regia di Fabrizio Pompei, “Cheng e gli altri”, regia di Fabrizio Pompei, e “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, regia del misteriosissimo Pedro Tochio.
L’ultimo di questi è uno spettacolo che, dopo aver fatto una quarantina di repliche (in tournée in varie parti d’Italia: Trofarello, Chivasso, Caffè Basaglia a Torino, Fara Sabina ospiti del festival del Teatro Potlach,… e Rieti, ovviamente), ce l’hanno ancora in repertorio. E’ dedicato non tanto alla guerra, quanto soprattutto e più specidifcatamente alle vittime della guerra.
Federica Scappa dice: << non è che noi ci teniamo tanto a raccontare delle storie. Le storie le usiamo per raccontare, per svelare degli archetipi, per denunciare qualcosa. Principalmente si parla di un bambino soldato e di un malato di mente del periodo nazista. E quindi ragioniamo sugli archetipi della vittima e del carnefice. Il bambino soldato è vittima o è carnefice? >>
L’emozionante “Solo l’amore” è del 2009-2010 ed è all’inizio di tutto.
Federica Scappa lo racconta così: << E’ nato in tenda. C’erano altri aquilani qui in compagnia e mi ricordo […] facevamo le prove. All’inizio sì, pensavamo a fare uno spettacolo,… forse però neanche pensavamo a fare una compagnia. Si lavorava essenzialmente allo spettacolo. Vedendo che comunque lo spettacolo prendeva forma abbiamo pensato di fare una compagnia. Era uno spettacolo da strada. Molto simbolico. >>
Fu una pièce davvero bella. Ricordo di averla vista in replica a L’Aquila in piazza Regina Margherita. In una regia creativa, viva ed interessante, fatta di energia da trasmettere al pubblico; con una grande attenzione per l’aspetto estetico-visuale; c’erano bolas e ventagli, fuoco e delicatezza, energia ed eleganza… e musica, ma non per ascoltarla: per guardarla! Tutto era collegato.
Riguardo a quel periodo, Umberto Caraccia, nella sua pagina facebook, già all’epoca, scriveva: <<Dopo che la terra trema e tu la senti viva... tutto cambia... si distrugge... anche la tua identità... rimane solo ciò che sai in parte fare... il tuo mestiere... un teatro che sa di strada... un teatro fra mille che sa di necessario...per me. >>
Una frase che all’epoca poteva sembrare forte e perentoria, e che adesso, a distanza di tempo, lui, intervistato telefonicamente, commenta così: << [il terremoto, ndr] forse ti va a distruggere, ripensandoci col senno di poi, quell’identità fatta anche un po’ dalla “maschera”, ovviamente, in quel momento (che però comunque a noi attori serve, perchè studiarle ci aiuta a farci possedere in qualche modo).
Però ti rimane che cosa? Ti rimane l’intimo. E’ come se ti pulisse. E ti rimane quello che devi fare. Il tuo mestiere. Che è quello del Teatro. Il teatro già non c’è più. Anche perchè è distrutto.
E perciò ti arriva quel teatro “necessario”. Ma necessario per chi? Per l’altro non lo so se è necessario perchè giustamente io non sono l’altro (come faccio? Adopererei una grande proiezione!) Necessario per me, in quel momento. E se poi diventa necessario per l’altro, diventa bellissimo. Però, in quel momento, in quella fase, era proprio necessario, ti ricostruiva un’altra identità fatta dal tuo mestiere... Per poi arrivare fino qua. >>
Una spiegazione psicologica. Ma d’altronde lui può permettersi di fare certi discorsi perché è laureato in psicologia clinica e attualmente sta frequentando una scuola di psicoterapia junghiana.
E a proposito del loro concetto di attore spiega che per loro l’attore deve assimilarsi allo sciamano, oppure al teatro greco nel quale era il dio che entrava dell’attore per permettergli di interpretare il personaggio.
Nella sua teoria chiama in causa anche Freud che ha posto in dubbio l’esistenza dell’”io” (terza rivoluzione antropologica dopo quella che toglieva la Terra dal centro dell’universo e quella darwiniana che imparentava l’uomo con la scimmia).
Caraccia prosegue dicendo: << Infatti attraverso il training, attraverso un determinato allenamento psico-fisico riesci ad annullare o quanto meno ad abbassare le resistenze psicofisiche in modo da permettere le istanze, che poi è il personaggio (ma il personaggio sei sempre tu!), cioè devi andare a cercare quel personaggio che è in te (riferito alla scena) al fine poi di farti possedere in quel momento, come faceva lo sciamano che trasmetteva la tradizione orale. >>
Per loro, il training personale fatto da danze (anche danze Odissi o Buti che studiano) ed altri esercizi di movimento è importante. Per Caraccia, non è l’attore che “entra” nel personaggio. Questa è una erronea visione occidentale maturatasi con il tempo e la trasformazione dei significati attraverso un deludente ed illusorio imperialismo dell’io incapace di integrarsi.
A tal proposito, su facebook, all’inizio del mese scriveva: << Noi Alchemici, se questa è la prassi siamo verso la via degli Sciamani, quella antica, Immaginale, verso la via del farsi possedere per poi ritornare e compiere il racconto della storia orale.>>
La scelta di fare del teatro fuori dal teatro, la loro scelta di praticare un teatro nomade, zingaro, lavorando attraverso ponti metaforici e baratti con le diverse realtà professioniste e non che incontrano durante il loro cammino, arriva soprattutto dalla consapevolezza che non è lo spazio fisico che crea il teatro, ma sono gli attori che attraverso il loro lavoro creano gli spazi teatrali, come in un continuo processo alchemico, sciogliendo la materia, purificandola dalla quotidianità e fissandola in intervalli onirici.
Da qui il loro nome.
Federica Scappa dice: << Il Teatro Alchemico è questo: la ricerca di qualcosa, la ricerca della perfezione. >>
La loro stessa formazione artistica deriva da compagnie di ricerca, come ad esempio il Teatret Om, diretto da Sandra Pasini in Danimarca, la Scuola Ambulante di Teatro di Simone Capula e Rogo Teatro di Canzano (TE) dove hanno partecipato pure a un laboratorio con Guillermo Angelelli che ha trasmesso loro l’esercizio del Ponte dei Venti appreso all’Odin Teatret.
Riprendendo un concetto di Jodorowsky, loro non amano l’arte che serve a celebrare, bensì preferiscono quella che serve a guarire.
Umberto Caraccia afferma: << Anche se ci sta sempre una piccola dose, o grande dose, di esibizionismo, (è normale, no?) però secondo me l’attore fa l’attore, almeno per me, perchè ha un asse fratturato del sé. Cioè c’ho un asse fratturato dentro, in qualche modo.
[…] una cosa che noi facciamo, quando finisce lo spettacolo, è: non uscire mai col “personaggio”, prenderci quel minuto di tempo per cambiarci proprio di vestito e sederci con gli spettatori, insieme, e parlare con gli spettatori. […] errori che fanno i nostri colleghi sono quelli, quando costruiscono lo spettacolo, di pensare solo all’attore. E invece no! Perchè sono due ensemble. E’ l’attore, ma contemporaneamente anche lo spettatore! E lo spettatore e l’attore poi fanno il teatro. Lo spettatore deve essere un “rito” insieme all’attore. Il teatro, quella scena, deve essere un totale rito, deve ripercorrere di nuovo la via dello sciamano.
Perciò io, noi, non ci serve la celebrazione dell’esecutore. Non faccio questa cosa perchè è bella e perchè mi fanno l’applauso. Faccio questa cosa al fine di denunciare, di guarire, di curare. >>
Nella sua pagina facebook Umberto Caraccia scrive una frase molto significativa, molto forte, ma bellissima: << Se un giorno sarò psicologo, sarò uno psicologo del dissenso.. se un giorno sarò un pedagogo, sarò un pedagogo del dissenso, se un giorno sarò un attore, sarò un attore del dissenso, se un giorno sarò un uomo, sarò un uomo del dissenso.>>
Poi, telefonicamente, mi spiega di aver tratto ispirazione leggendo il libro “La pedagogia del dissenso” di Paulo Freire e dice che << Nello studio del Teatro Alchemico ci sta tutta la “pedagogia del dissenso”.>>
Il loro dissenso, dicevamo poc’anzi si esplica già nel luogo dove realizzano gli spettacoli, all’aperto o comunque in luoghi non convenzionalmente dedicati al teatro.
Al riguardo si rifanno al teatro “senza mura”, oppure al “Quarto teatro”, cioè il teatro tradizionalmente definito di strada e che, sebbene spesso venga trattato come una forma minoritaria, in realtà ha delle tecniche fantastiche (riprese anche dall’Odin Teatret) riguardo il rapporto con lo spettatore, l’acrobatica e il training, il rapporto con l’oggetto, la giocoleria e il palcoscenico che non è più il palcoscenico normale, ma che in quel momento, diventa il mondo.
In particolare Caraccia dice di essere affascinato dal festival “Mercantia” che si svolge annualmente a Certaldo: chiudono l’intera città e chiunque voglia entrare a guardare le varie attrazioni/artisti presenti in tutto il centro storico, deve pagare un biglietto.
I due temi di ispirazione di Teatro Alchemico sono Eros e Caritas. Il primo indica l’amore per il teatro ed è collegato al secondo dal fatto che quest’ultimo significa che l’attore deve donare delle emozioni agli spettatori (attraverso il primo concetto, cioè l’amore).
Volete altre anticipazioni?
Li ritroveremo tra il 20 e il 26 maggio, sempre a Rieti, quando saranno i direttori artistici di alcune giornate di “La città dei bambini e delle bambine”, in occasione della quale l’Unicef concederà a Rieti un’onorificenza internazionale per l’attenzione che la città sabina pone alle tematiche infantili.